Ho sognato che qualcuno mi amava

Nel 2005 ho pubblicato il romanzo Ho sognato che qualcuno mi amava, nella collana diretta da Michele Trecca (Palomar, Cromosoma y). Al romanzo era dedicato un sito web (hosognato.it) che ora è scomparso nei meandri della rete  (e poi dicono che dal web non si cancella mai nulla!).

Cerco di salvarne parzialmente i contenuti travasandoli su questo blog. Comincio con alcune recensioni dell’epoca, che trovate di seguito.


Una generazione ha trovato il suo romanzo
di Carmen Spinesi – Corriere dell’Umbria

“Non ti veniva chiesto di essere gentile, non ti veniva chiesto di essere divertente, non ti veniva chiesto di essere interessante, perciò tu non eri gentile, divertente, interessante. Non serviva”. Sono loro i protagonisti del sorprendente romanzo di esordio di Maurizio Cotrona, Ho sognato che qualcuno mi amava: i nati negli anni settanta, i figli dei protagonisti del boom economico italiano. I figli del benessere, della carne tutti i giorni. I figli, sempre più spesso unici (o quasi), cresciuti al suono di “il mio bambino deve avere tutto quello che non ho avuto io”. I figli che nella vita viaggiato e studiato. I figli più alti dei propri padri, i figli vestiti bene, che hanno lasciato la strada per la Tv. I figli che non hanno mai avuto bisogno di nulla, che non conoscono la fame, il sacrificio, la lotta e che oggi si ritrovano a vivere uno squilibrio drammatico tra la durezza di un mondo che non li accoglie e la morbidezza della loro pelle da eterni bambini.

Partendo dalla dimensione intima dei suoi diversi protagonisti il romanzo riesce a dar voce ad una generazione che vive in modo amplificato le tensioni connesse alla natura umana e ai suoi limiti. Una generazione apparentemente inadeguata, condannata a scegliere tra una profondità dolorosa e una superficialità annichilente. Ho sognato che qualcuno mi amava è un libro formidabile perché – senza mai adagiarsi su un toni pessimistici – riesce a restituire dignità alla fragilità e alla paura, regalandoci l’immagine di una gioventù che possiede ancora il coraggio di guardare in faccia il dolore e la capacità di nutrirsi dei propri limiti, per scoprire che soltanto dal riconoscimento di un bisogno può nascere la sua soddisfazione. Solo dallo smascheramento del sogno laccato, tutto occidentale, di un mondo perfetto può nascere una adeguata considerazione di ciò che si è, nel midollo. Perché il vero inferno non è quello di fiamme, ma è quello di pietra che si vive tutti i giorni quando abbiamo deciso di non vivere più, di vivere una non vita: una vita che celebra il “fuori di sé”, rinnegando l’infinito o il mistero che portiamo dentro.

Il romanzo – scritto con uno stile sobrio ma capace di una poesia dalla metrica larghissima, in cui le parole sono lunghe pagine e i versi sono capitoli – stigmatizza la deriva contemporanea che riduce tutta la realtà alla sua superficie e tutto il tempo al presente. E lo fa muovendosi sapientemente tra gli opposti: l’uomo e il mondo, l’ora e l’eternità, il dentro e il fuori, estremi che danno corpo ad un coro di voci armoniche ma ben distinte, che muovono il romanzo con il passo di una sinfonia.

Ma la scommessa più ambiziosa che l’autore riesce a vincere è quella di dar vita allo spirito di una generazione senza ricorrere a nessun giovanilismo di maniera: nelle sue pagine non ci sono i gruppi rock preferiti, non ci sono le mode, non c’è il gergo da branco, non c’è l’impeto autodistruttivo che caratterizza molta narrativa recente. Ci sono solo loro: i giovani di oggi, ridotti all’osso, presentati nella dimensione essenziale di esseri viventi che soffrono e sperano, portentosi amplificatori di un disagio e di un capacità di amare antichi quanto il mondo. E se il romanzo parla di solitudine, di difficoltà nello stabilire relazioni con gli altri e con le cose, perfino di morte, appare scritto perché alla fine prevalga un complesso senso di pienezza, grazia e generosità, riuscendo nell’impresa di imporre un senso altissimo ad una parola a cui, ormai, facciamo fatica a dare una connotazione positiva: “uomo”.

 

Un altro libro sulla celebrazione del male di vivere? No, per fortuna.
di Erika Furci – Il Mucchio Selvaggio

Se si potesse dare una definizione visiva a questo romanzo: pagine scritte a mano, fitte fitte.
Così come fitte appaiono le vite che si incrociano. Vite frenetiche, fuggevoli e, proprio per questo, incapaci di un vero contatto tra di loro che vada oltre goffi tentativi di sfiorarsi.
Gabriele, Lisa, Roberto, Luca. Esistenze. Personaggi non in cerca d’autore, ma neppure autori di se stessi, che vivono portando avanti un pesante vessillo, non tanto di dolore, ma di incompletezza.
Una condizione di gabbia che si rivela loro poco a poco, dopo innumerevoli tentativi di chiudere gli occhi, fino a diventare insopportabile.
Forse è proprio questo stato di caducità irrimediabile che li sfianca, rendendo la loro vita una sorta di sogno- prigione più che esistenza.
Un altro libro sulla celebrazione del male di vivere?No, per fortuna.
D’accordo, gli elementi ci sarebbero tutti. Una carrellata di disagi giovanili da manuale: il rifiuto del proprio corpo, visto come ostacolo all’interiorità; la solitudine incolmabile, nonostante le occasioni di incontro e i locali pieni; l’incapacità di stringere relazioni sentimentali che vadano oltre al dare forma a un personale copione, in cui l’altro diventa un semplice attore, su cui si proiettano i propri desideri.
Ma stavolta il libro assume subito un tono diverso. Merito di uno stile dalle sfumature spesso oniriche, ma soprattutto di una notevole capacità d’indagine interiore che non sconfina nella psicologia spicciola. Sembra che i Nostri non abbiano il tempo e la forza di pascersi nel loro dolore, tesi come sono a volersene liberare. Un libro che è soprattutto messaggero di un tentativo di fuga. Dalla paura e incapacità di vivere, che parte in primis da se stessi e rende “fermi”, intrappolati in un beffardo specchio che impedisce di cogliere e rapportarsi agli altri oltre quella che è soltanto percezione. Ci riusciranno? Forse lo vorrebbero, forse ne hanno un’inammissibile paura. Quel che è certo è che giunti all’ultima pagina di questo libro, non lo si chiude con l’amaro in bocca. Senza cadere nel facile buonismo, l’esordiente Maurizio Cotrona (giunto in pochi mesi alla seconda edizione) fa intravedere una speranza. Fievole, timorosa. Quindi reale.

Cotrona, storie di trentenni che scompaiono
di Enzo Mansueto – Corriere del Mezzogiorno

 Se c’è un verbo che lega i movimenti di questo debutto narrativo, con ambizioni costruttive di tipo musicale, esso è “scomparire”. Gabriele, o meglio, il peso del suo corpo, finalmente scompare; Lisa, il suo volto, scompare, come la tela dietro la vernice; Luca scompare nel buio del suo appartamento da single, sotto il peso del sonno; Roberto sarebbe scomparso nella sua metropoli, nella vita quotidiana a cui stava per ritornare.  Gabriele, Lisa, Luca; Roberto sono i personaggi di un romanzo breve che si svolge per storie parallele e, per alcuni tratti, questa è la geometria della vita, tangenti. È l’esordio di Maurizio Cotrona, Ho sognato che qualcuno mi amava (Palomar 2005). Gli Smiths del titolo col romanzo non c’entrano nulla, anche se un Morrissey gorgheggiante sullo sfondo dell’Ilva incarnerebbe bene la decadenza urbana raccontata. Una suggestione.

Quattro solitudini che si sfiorano. Per caso. Tutto comincia con un gioco infantile: la conta, tana libera tutti. Tutto finisce con la stessa scheggia di memoria infantile. In mezzo, messi in cornice, cinque capitoli, per raccontare le esili esistenze di questi quattro trentenni tarantini, per molti versi sfaccettate emanazioni dell’autore. Tentenni, ancora una volta. Sembra un sottogenere della narrativa e della cinematografia italiana odierna. Un luogo comune ampiamente accreditato: il trentenne, figura antropologica di un’adolescenza protratta, per insicurezza sociale, per precarietà lavorativa, per prospettive di studi incerte. Regno, non solo anagrafico, della sospensione, in cui tutti e quattro i protagonisti di Cotrona, a modo, loro, sono gettati. Ansia, squallore, paranoia, insoddisfazione, precarietà permeano il quotidiano. Si cerca un senso: persino, senza crederci, entrando in una chiesa. Si finisce per scomparire. In un dilagante vuoto affettivo, si finisce per sognare, appunto “che qualcuno mi amava”. Il reale sfuma in dissolvenza con tratti psicotici, a stento mascherati da una scrittura leggera che duetta non poco con la banalità melensa delle vicende o con una certa ovvietà di pronuncia. Vorremmo credere che non si tratti di una scritture non ancora matura, ma di una consapevole regressione della scrittura stessa nella banalità del male descritto.

Sullo sfondo: Taranto. Una città simile a tutte le altre, con i suoi dieci pub scarsi e semivuoti. La Taranto moderna e periferica, con le sue file ordinate di oleandri; piuttosto che la Taranto vecchia, grave di ricordi. La città sullo Ionio che comunque ti apre, se vuoi, un affaccio sentimentale sul mare: è un privilegio vivere in una città dove è così facile trovare posti belli e solitari in cui portare una ragazza. L’ultima spiaggia. Il romanzo si legge con facilità, per brevità e linguaggio, ma anche per qualche invenzione nella trama che invita a procedere. Qualche inceppo solo li dove l’autore autore abbandona il registro della superficie quotidiana, per avventurarsi in più filosofiche elucubrazioni o ardite introspezioni, come per gran pare del capitolo centrale.

Maurizio Cotrona, classe 1973, qualche piccolo riconoscimento letterario già alle spalle, si affianca così a Cosimo Argentina e, sul fronte del reportage, ad Alessandro Leogrande, tra le voci che indagano ed esprimono l’incerto momento del nostro Paese, partendo dalla quotidianità assai emblematica di una città come Taranto, città distratta come altre, come troppe.

Parla con lui
di Enzo Verrengia – Gazzetta del Mezzogiorno

Pedro Aldomovar ha apportato al racconto realista una frammentazione che non c’entra solamente con il cinema, il sua mezzo espressivo.

Nelle storie del regista spagnolo, sono proprio i personaggi e le situazioni a scomporsi in tanti risvolti, perchè la vita di ogni giorno non è fatta di un’unica trama che scorre prevedibile o imprevedibile, secondo le regole della grammatica narrativa. Così, Almodovar stacca su semplici comprimari e ne dilata il ruolo fino a surclassare quello dei protagonisti, messi da parte a metà strada, quasi fossero momentaneamente inutili. Il fine ultimo non è tanto una nuova forma di stile, un’estetica dell’opera, quanto la rappresentazione del dolore, che attraversa l’esistenza di tutti, che “è ” esistenza.

E ad Almodovar e al suo mondo così europeo, contemporaneo e ricco di chiaroscuri, si pensa dalle prime pagine di Ho sognato che qualcuno mi amava di Maurizio Cotrona. Un romanzo veloce come una sceneggiatura, ma denso come una tragedia. Anche qui il mediterraneo, quello di Taranto, non ha l’iconografia abbacinante che si vorrebbe, visto da fuori. Piuttosto è crepuscolare, oscurato dai fiumi non espliciti eppure presenti dell’Ilva e della civiltà industriale. La notte delle nuove generazioni è scandita dai passaggi in pizzeria.

Lì Gabriele si innamora di Lisa. Facile per uno che vive male la propria condizione fisica di persona soprappeso. Tanto più che lei commette l’errore di mostrare umanità in un presente fatto di tanti egoismi. la ragazza concede a Gabriele una salutare presa della parola. Gli rivolge l’attenzione fatta essenzialmente di pietà. Dalla quale scaturisce in lui l’illusione di poter costruirsi un normale rapporto affettivo. La ricerca di comunicazione, da parte del ragazzo, viene fatalmente percepita come molesta da Lisa. Lui le telefona tutti i giorni, assume atteggiamenti di involontaria possessività, che la inducono a sbottare con un’amica: “Gabriele mi sta togliendo la vita”.

Ed ecco la dinamica di Almodovar. Qui Cotrona sposta la sua cinepresa di parole dalla devastazione che si scatena dentro il rifiuto ad altre pedine del romanzo. Innanzi tutto, una trasfigurazione che riguarda lo stesso Gabriele, colto nel tunnel autodistruttivo in cui si infila mediante un dialogo con la sua maschera.

Poi Luca, che con Lisa vorrebbe e potrebbe avere l’amore, però deve scontare le difficoltà predisposte per la sua generazione da un occidente incapace di confermare al proprio interno quel modello di sicurezza e realizzazione che vorrebbe imporre per primato agli altri sull’intero pianeta. Infine Roberto, l’amico di Gabriele, su cui ricade il fardello di tutto quanto si è accumulato nel romanzo, il registro della negatività. Gabriele, investito dall’impatto del disamore di Lisa, ha cercato di uccidersi precipitandosi dal balcone della cucina e adesso è in coma. La sua trasfigurazione di metà vicenda era quella del suicidio.

Roberto vuole, almodovarianamente, parlare con lui. Ma c’è anche la voce stessa di Gabriele, che ripercorre il sogno al quale Cotrona intitola il suo libro. Un esordio che scaturisce dal laboratorio creativo tarantino, e nel contempo propone la voce personale di chi sa esprimere in prosa lo stato più instabile della natura, quello dei sentimenti.

Dolore e vita tra le pagine di Maurizio Cotrona
di Antonio Fresa – Napoli più

Le storie dei personaggi di Cotrona, qui al suo primo romanzo, si poggiano le une sulle altre e, come cerchi concentrici, postulano l’esistenza di un centro. Gabriele, Lisa e gli altri protagonisti scontano tutti la paura del dolore e ne mostrano le possibili conseguenze. Chi desidera parlare non sa farlo. Chi desidera tacere non sa farlo. Sempre le strade e i locali, anche se pieni di gente, conducono al ricordo di un momento della vita che ha fatto da spartiacque, che ha segnato il distacco dalla banchina del porto senza la conoscenza della rotta da seguire. Si va, come la vita impone.

Conservo nella memoria l’amarezza vibrante dei personaggi di Carver e non so sottrarmi a questo richiamo leggendo le pagine di Cotrona.

Lì, come qui, l’amore è attesa e non compimento; li, come qui, l’amore è leggera sospensione che non crea stabilità.

“Chi sono io?” si chiedono questi personaggi e sembrano scoprire se stessi nello spazio che separa o unisce il dolore morale e il dolore fisico della malattia. In fondo, verso quale “speranza” si lancia chi supera la ringhiera del balcone? Domanda assurda? Per niente.

Malattia e coma per chi sta male; compagnia e attesa per chi li assiste: tutto gira attornio a questi letti, definendo al termine un centro che porta all’abbraccio, al contatto. Come evitare la tentazione di racchiudere almeno una piccola parte di queste storie nelle parole di uno dei personaggi?

«Tutti, tranne mio zio Tonio (si sta parlando degli adulti). Lui ce l’aveva fatta, li aveva realizzati sul serio i suoi sogni e viveva senza rimpianti e paure. Credo che sin da piccolo intuissi che lui aveva trovato la strada per tenere lontano il dolore e che, stando con lui, avrei finito col trovarla anche io. Per tutti gli anni del liceo sono passato da lui quasi ogni sera. Cercavo di entrare nella sua vita e occupare più spazio possibile. Suonavo al citofono e mi bastava dire “sono io”, perché riconosceva la mia voce.»

Ho sognato che qualcuno mi amava sarebbe stato definito, un tempo, come un romanzo di formazione? Sì, se si intendiamo cogliere con tale formula il racconto delle vicende di chi scopre la precarietà insita a tutte le esistenze, anche in quelle di coloro che abbiamo scelto come modelli o in quelle di chi abbiamo amato oltre ogni condizione.

Un libro non da leggere, ma da cui si è letti
di Rossana Mitolo – Prima Vera Radio

Maurizio Cotrona esordisce sulla scena dell’editoria italiana con  Ho sognato che qualcuno mi amava (Palomar, Cromosoma Y), romanzo intenso e pulsante di vita in ogni sua piega, animato dalla densa presenza di personaggi dai tratti forti e decisi. Ho sognato che qualcuno mi amava è il classico esempio del libro non da leggere, ma del libro da cui si è letti. Non sentirsi chiamati in causa da almeno uno dei moti interiori dei suoi personaggi risulterebbe, per qualsiasi lettore, un’impresa decisamente vana.
[…]

Fulcro dell’intera vicenda è Gabriele, giovane  tarantino. Cresciuto in un ambiente familiare iperprotettivo, si ritrova ad affrontare un’infanzia, un’adolescenza e poi una giovinezza, alle prese con un disagio psicologico e sociale ai limiti del patologico. Gabriele consuma le sue giornate, spesso barricato nella sua stanza sotto le coperte del suo letto-culla, provando imbarazzo perfino con se stesso e scontrandosi con l’enorme difficoltà di comunicare con chi è al di là di lui. La paura dell’altro, la sensazione di non essere visto, sentito da chi lo sfiora o lo avvicina, fanno di lui una figura tenera ma nel contempo estremamente drammatica. Gabriele, almeno nella prima parte dell’opera, non ama se stesso e neppure le sue fattezze fisiche.

Ma poi, qualcosa di veramente forte irrompe nell’animo di Gabriele e così, gli artigli di cui pensava d’essere sguarnito, gli permettono di scavare dentro di sé, dentro le proprie paure, il proprio dolore e i propri sogni più veri per incontrare, dopo aver graffiato via anche l’ultima eco della sua inadeguatezza a vivere, il nucleo di se stesso. È in un momento molto particolare della vicenda che una donna, figura quasi angelica, dice a Gabriele “Non dare troppo valore al piacere e al dolore, gli uomini possono essere più forti…i tuoi gemiti più segreti, quelli che quasi non ti accorgi di emettere: solo di quelli vale la pena gioire o pentirsi, tutto il resto non ti appartiene. Il resto è materia, polvere ed aria.” Forse sono proprio queste le parole che più di tutte scuotono le corde più profonde di Gabriele il quale, seppur attraverso una  lenta e dolorosa scoperta di sé, arriva a cogliere aspetti dell’esistenza ignoti anche ai più impavidi ricercatori.

[…]

Un destino diverso sembra invece attendere Roberto, figura complessa ma estremamente affascinante. Inquieto e caparbio, al cospetto di un malessere senza bandiera e senza ferite, questi infatti si piega, rinunciando a quella che, anche solo per pochi istanti, gli era sembrata la via giusta per riafferrare la propria vita: l’amore attivo e la carità operosa. Roberto, quindi, diventa forse il simbolo di un malessere generazionale.

[…]

Il romanzo è carico, senza mai perdere in freschezza e scorrevolezza, di messaggi e riflessioni forti, coraggiose e profonde. Tra queste, ne vorrei sottolineare una in particolare, riguardante il senso ed il valore del “dare”: “Luca aveva imparato che, quando la vita comincia a girare, è facile non farla fermare, perché ti accorgi che tutti vogliono le stesse cose. Tu cerchi un amico? Chiunque ha bisogno di un amico. Cerchi una ragazza con cui stare bene? Anche lei cerca un ragazzo con cui stare bene. E ci si viene incontro, perché le tue difficoltà sono quelle degli altri. L’importante è avere qualcosa da offrire, non presentarsi a mani vuote; dopodichè, basta solo un po’ di pazienza”.  

Un concetto simile viene poi riproposto molte pagine più in là, quando don Carlo dice: “Il paradiso non è un premio, l’inferno non è una punizione, sono entrambi una scelta: ognuno avrà ciò che vuole. Chi desidera il bene degli altri quanto il proprio bene vivrà in un luogo di piena libertà, dove l’individuale coesiste con il molteplice, in un perfetto equilibrio di generosità e passioni, di carità ed amore di sé; chi, invece, vive solo in se stesso, per se stesso, avrà una vita in cui nient’altro esiste se non se stesso, e si consumerà dal di dentro”.

La generazione dei trentenni in 5 atti
di Paolo Aquaro – La voce del popolo

Edito da Palomar di Alternative, l’opera prima di un trentaduenne di Piazza Maria Immacolata, naviga dentro e fuori la nostra città tanto somigliante ad altre anonimamente omologate. Una storia a quattro gambe sullo sfondo esangue di famiglie diafane.

Gabriele, Lisa Luca, Roberto. Quattro trentaduenni, si presume, come Maurizio Cotrona, autore di “ho sognato che qualcuno mi amava” edito da Palmar di Alternative (12 euro), muovono questo romanzo di un giovane tarantino alla sua prima uscita letteraria. Naturalmente autobiografico, come tutte le opere prime. Non ingannino i quattro personaggi in cui Cotrona si sfaccetta nelle sue ansimanti cento pagine per far quadrare il cerchio di un teorema generazionale senza certezze terrene. Purtroppo. E allora, ecco l’implosone della paura, nelle domande esistenziali, semplici. Magari racchiuse nel gioco della conta “uno, due, tre liberi tutti o …solo me?” che apre e chiude il romanzo di Cotrona, in cinque atti e due quadri. I cinque atti: Gabriele, Cercare Lisa, Uomo, Roberto, Perle. I due quadri sono l’apertura e la chiusura del sipario istoriato della nella conta del gioco liberi-tutti-o-solo-me. Da leggere senza spazientirsi, e senza la puzza sotto il naso di chi di libri ne letti tanti e di domande scritte ne ha trovate a migliaia e incasellato nella sua ricca biblioteca. Basta non fare gli snob, andare oltre l’incipit-modo “già letto altrove e chissà quante volte”, baipassare (altro consiglio interessato) il risvolto di copertina vivificata graficamente da “Love me, 2001” , lavoro di Nicola Vinci. Da comprendere. Come da comprendere è il banalissimo passaggio del testo: “Io non ho mai visto l’oceano. Deve essere meraviglioso – disse Lisa, con una ostentata malinconia nella voce. “Neanche io, ma se non c’è terra all’orizzonte credo che qualsiasi mare sia identico all’oceano”, rispose Luca, scrutando lo Ionio. Il tempo di compiacersi delle sue parole che si girò verso di lei; le battute del loro frettoloso copione erano già terminate”. Ecco cosa è stato riportato in quarta di copertina, una oscenità letteraria la cui estrapolazione dà, del romanzo, la più lontana e strampalata idea. Quella di una storia melensa fra due innamorati in riva al mare, da consegnare direttamente agli autori di “un posto al sole”. Invece, niente di tutto questo. È un romanzo sul dolore senza ferite, senza bandiere. Svicola in una città chiamata Taranto accidentalmente, che non si sforza neppure di trovare location identificative, con il rovello madre di ogni vita, quella di Gabriele, come di lisa, di luca, Roberto: “nella vita non conoscerai neppure un attimo di felicità”. E quando arriva il dolore, che fai, come ti tiri fuori. Maurizio Cotrona non ha una ricetta per sopravvivere al dolore perfetto, non corre in cantina a costruire una macchina complicata e, a modo suo, con un’anima, come fa Ugo Riccarelli. Lui, questo trentaduenne di Piazza Immacolata, offre tre sole possibilità per contrastare il dolore, quando arriva. La prima è negarlo, ignorarlo finché non passa, restare in superficie come un perfetto idiota eccetera eccetera. La seconda possibilità è di soccombere, arrendersi, suicidarsi, bucarsi e così via. La terza è combatterlo nell’unico modo possibile. Lui delle tre sceglie… E no, il libro va letto, tutto per intero, e meditato, guardato, lasciato per rifiatare, ripreso e riletto, rimeditato e collocato in una Taranto di trentenni in apnea decisionale, tra lo stare e l’andar via. In città come in famiglia. Non sembrano avere altri strumenti per far saltare il tappo del loro essere figli oltre natura e uomini incompiuti. Fingere di vivere e sdraiarsi comodamente in coma profondo senza rischio di decubito grazie alle attenzioni materne. Ma c’è dell’altro, c’è Dio, cercato in maniera sprezzante. E c’è la parabola di Zaccheo, il pubblicano curioso di vedere Gesù ma tanto basso da essere costretto a salire su un sicomoro.

Un libro coraggioso. Magari non metterà su di giri, forse costringerà a riflettere, sicuramente si metterà nelle condizioni di essere consumato al più presto, tenerlo un buon quarto d’ora in mano con i pensieri sospesi. Poi afferrarne a caso, legarlo semmai al fatto che è un libro scritto da un ragazzo di soli trent’anni, mese più mese meno, l’età di un figlio di uno di noi, uno qualsiasi di questa Taranto senza toponimi particolari. Può essere utile ricominciare da dove avevamo lasciato. E capire perché Roberto, avendo finito di contare, addossa le spalle al muro, incrocia le braccia e resta immobile. Chi lo sta guardando di nascosto, sa che lui non ha alcuna intenzione di mettersi a cercare nessuno.

In cerca della felicità
di Isabella Marchiolo – il Quotidiano di Baslicata

Vivere può far male. Fino alle ossa, in fondo alle viscere. Capita, per esempio, di portarsi addosso un corpo ingombrante, carne greve che opprime un’anima leggera e le impedisce di parlare, come Gabriele. Ma il dolore assale anche se si gira per il mondo con due grandi occhi color miele e un viso luminoso, come Lisa. O quando, come Roberto, si fugge da un’esistenza comune verso aspirazioni straordinarie, eppure un rumore di fondo sussurra implacabile che «nella vita non avrai un solo momento di felicità». 

In “Ho sognato che qualcuno mi amava” (edizioni Palomar), opera narrativa d’esordio del pugliese Maurizio Cotrona, l’autore esplora la sua generazione, quella dei trentenni, dove spesso incontra il “male di vivere” e lo scruta negli sguardi ardenti di tre bambini cresciuti in una Taranto avida di sogni e avara di speranze. Sembrerebbe il prototipo della città meridionale contemporanea, ma presto i suoi contorni si confondono. Strade, palazzi, pub affollati e cortili di periferie disegnano piuttosto la mappa un ideale “luogo senza luogo” della giovinezza, che trascorre e si consuma alla luce dei suoi stessi sogni. 

Gabriele, Roberto e Lisa iniziano qui la loro storia: tre ragazzi che giocano a nascondino e, senza saperlo, proprio nell’azione ludica, costruiscono la futura immagine di adulti. 

Anni dopo, li ritroviamo imprigionati nei ruoli che la vita ha scelto per loro. Gabriele, grasso e senza amici, è il tipo alienato che i coetanei “trendy” evitano come la peste, assicurandosi che la sua presenza non rovini lo scenario di autocompiacimento faticosamente costruito tra discoteche, macchine appariscenti e locali alla moda. Tra questi giovani c’è anche la bella Lisa, ossessionata dall’esigenza di essere sempre al centro dell’attenzione maschile, una nevrosi che le impone di annullarsi dietro l’apparenza fisica. 

Roberto ha lasciato Taranto per liberarsi di una famiglia troppo invadente. Ma anche a Roma, dove lavora in uno studio legale, ha una fidanzata e un discreto appartamento in affitto, il suo “male di vivere” lo insegue, non gli dà pace. A braccare i suoi passi c’è l’ombra dello zio, morto lasciando al nipote una sentenza rancorosa e sconfitta sull’atavica infelicità della vita. 

Infine c’è Luca, testimone delle tre vicende, osservatore neutrale e inconsapevole della pena che accomuna i tre personaggi. 

Roberto cerca una risposta, e naturalmente non la troverà. Così come gli altri, costretti a fare i conti con desideri che non si realizzeranno. A sorpresa tutti scopriranno che anche così la vita vale la pena tenersela. 

Maurizio Cotrona non può né vuole dare soluzioni al dolore dell’esistenza. Ma per farcela basta sognare che qualcuno ci ami, come suggerisce il titolo del romanzo, traduzione di una canzone degli Smiths. E non importa se è solo un altro falso allarme, una bugia dell’anima. Sentire l’amore servirà a far alzare i personaggi del libro in volo sopra le loro paure.

E’ la solidarietà della differenza, di umanità inquiete che alla fine si riconoscono tra loro, oltre la solitudine e la disperazione, e si arrendono ad un assoluto bisogno d’amore.

Cotrona è bravo a raccontare questo incontro (o la sua incessante ricerca) con uno stile immediato e un linguaggio semplice ma intenso e appassionato quanto basti per non smarrire il lettore nella fragilità dei protagonisti del romanzo.

Qualcuno, come in “Ali”, bellissimo racconto lungo di Yukio Mishima, vorrebbe imparare a liberarsi di quelle strane appendici di piume che lo rendono diverso, perché «al giorno d’oggi è motivo di vergogna avere qualcosa di tanto sublime».

I ragazzi teneri e disorientati di “Ho sognato che qualcuno mi amava” ce le hanno, quelle ali. Ma, come spesso accade, non lo sanno. Vederle significa fare una scelta. Si può continuare a camminare con quel carico sulle spalle. O liberarsene e portare addosso un altro peso, quello delle cicatrici

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